Internet e il boomerang della censura di Stefano Rodotà Forse servirebbe un pizzico di attenzione (cultura?) tecnologica in più per mettere bene a fuoco alcuni seri problemi legati alla lotta al terrorismo, per non restare vittime di semplificazioni e proporre così risposte adeguate. Un buon esempio si trova in un articolo di Gilles Kepel, pubblicato su Repubblica del 27 luglio. Un cattivo esempio ci viene dalle iniziative, non soltanto italiane, che disciplinano la conservazione e l'utilizzazione dei dati riguardanti il traffico telefonico,la posta elettronica, gli accessi ad internet. Kepel sottolinea che "il Web è stato preso in ostaggio dai gruppi estremisti, che lo usano per aggirare la censura di Stato, accelerando la circolazione delle idee, delle informazioni, delle parole d'ordine jihadiste. S'è creato così un nuovo spazio planetario, un'Umma digitale". A questo stato delle cose non si può reagire con una strategia ingenua e sbrigativa che si traduca solo in regole che dovrebbero servire a mettere Internet sotto controllo. Pur senza nulla concedere alla tesi che vuole Internet incontrollabile per la sua stessa natura, bisogna pur partire dal fatto che si è di fronte ad una situazione inedita, irriducibile agli schemi finora adoperati. Partiamo proprio dalla censura. Fino a ieri i regimi totalitari, autoritari, autocratici, si credevano al riparo dal rischio della critica e della contestazione grazie al ferreo controllo della circolazione delle idee, alla repressione d'ogni dissenso, all'imprigionamento degli oppositori. Queste tecniche continuano ad essere adoperate. Ma sono insidiate, e rese sempre meno efficaci, proprio dal nuovo modo di produrre e far circolare le informazioni attraverso un canale, Internet, che ignora le frontiere degli Stati, le supera, e così mette a disposizione di una platea larghissima proprio ciò di cui si vorrebbe impedire la conoscenza. La censura, a questo punto, si rivolta contro chi la pratica, diventa un boomerang. Per contrastare l'influenza della propaganda terrorista e di altre predicazioni, infatti, servirebbe una opinione pubblica capace di produrre anticorpi. Non contropropaganda, ma discussione aperta, espressa da una società che fa penetrare tra le persone punti di vista diversi, consente confronti e così fa venir meno, per la propaganda estremista, l'apparenza di unica possibile verità alternativa di fronte alle imposizioni di governi non democratici. La censura paralizza questa possibilità e, di conseguenza, rende sempre più vulnerabili gli Stati che pretendono di rimanere chiusi in un mondo sempre più aperto. Il contagio non può più essere evitato chiudendo le frontiere. E, essendo impossibile controllare interamente Internet e precludere ogni possibilità di accesso, servono contromosse consapevoli della sua logica. Il terrorismo si è adeguato alla tecnologia, chi lo contrasta deve fare lo stesso. Perché il Web non rimanga ostaggio degli estremisti, è indispensabile una produzione democratica delle presenze e dei contenuti che compaiono su Internet, a partire soprattutto dai paesi nei quali il terrorismo cerca consenso e seguaci. Questo nuovo modo d'essere della democrazia stenta ad essere percepito, come risulta anche da alcune delle misure appena proposte dal governo inglese. Ed è recente la notizia di una inquietante alleanza tra governo cinese e Microsoft, che ha accettato di mettere in guardia i propri utenti cinesi dall'usare nelle loro comunicazioni elettroniche parole come libertà, democrazia, partecipazione. La pura logica di mercato, evidente fonte d'ispirazione della scelta di Microsoft, diventa così uno strumento limitativo della libertà. Una buona alfabetizzazione tecnologica serve anche nelle vicende che ci riguardano più da vicin. Qualche giorno fa segnalavo il preoccupante scarto tra attenzione per le intercettazioni telefoniche e beato disinteresse per i problemi legati alle decisioni riguardanti le forme sempre più massicce di conservazione dei dati riguardanti l'uso dei più diffusi strumenti di comunicazione - telefono, posta elettronica, Internet. Da quel momento lo scarto è ancora cresciuto. Vi è una forte spinta verso una revisione della disciplina delle intercettazioni. Ben venga. Sono anni che si conoscono i limiti delle norme vigenti, molte proposte erano state avanzate e costituiscono una buona base per definire con maggior precisione i casi in cui le intercettazioni sono ammesse; le loro modalità; i criteri di selezione, utilizzazione e conservazione del materiale raccolto; il rapporto tra segretezza dei contenuti delle intercettazioni e loro pubblicità. Sembra che si stia acquisendo piena consapevolezza del fatto che, in ogni caso, le intercettazioni sono uno strumento d'indagine che porta con sé rischi elevati per le libertà delle persone. Ogni modifica legislativa, però, deve avere una portata generale, con una giusta preoccupazione per tutti i soggetti e le conversazioni non direttamente rilevanti per le indagini. Se non si affronta il problema in questo modo, si rischia di avere sì una nuova disciplina, ma questa assomiglierà piuttosto ad una rete di protezione per alcune categorie di persone e di reati, per non dire ad una riforma "punitiva", che non ad una effettiva garanzia per tutti. Il rischio è reale. Alla improvvisa attenzione per nuove norme si è giunti sulla spinta delle polemiche suscitate da intercettazioni "eccellenti", non partendo dai molti casi dubbi di questi anni. Non si devono delegittimare anche le intercettazioni rilevanti, e chi le ha disposte e utilizzate, se davvero si vuole arrivare ad una seria riforma. Si continua a parlare di pubblicazioni illegittime, ignorando i pazienti chiarimenti venuti dal Procuratore capo di Milano e da seri studiosi della procedura penale che, tra l'altro, hanno messo in evidenza come il segreto venga meno per tutte quelle parti delle intercettazioni citate negli atti giudiziari comunicati a tutte le parti interessate. Si usano questi argomenti impropri per attaccare la magistratura, e per liberarsi dall'onere di riflettere sui limiti della politica e sull'abbandono della moralità pubblica. Vi è solo da augurarsi che questi spiriti non prevalgano, grazie anche alla provvida iniziativa del Capo dello Stato e del Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura per una riflessione seria sull'intera questione. Ma le polemiche di questi giorni impediscono anche di vedere i pericoli concretissimi che nascono dalla mancanza di garanzie nella materia della conservazione dei dati di traffico. Dobbiamo aspettare la pubblicazione della lista delle telefonate e della posta elettronica di qualche personaggio influente, o presunto tale, per renderci conto di quale situazione esplosiva si stia creando? Consideriamo qualche dato. Nel 2003 le intercettazioni sono state 77.500 (stime recenti parlano di trecentomila). Ma i dati relativi al traffico telefonico, già conservati, viaggiano verso il milione di miliardi. Ogni giorno si scambiano 300.000 e-mail. Ora questa massa di informazioni, destinata a crescere, deve essere conservata fino al 31 dicembre 2007. E dietro questo salto quantitativo vi è un ancor più preoccupante salto qualitativo. Le intercettazioni telefoniche, piacciano o no, sono comunque mirate, hanno alla loro base uno specifico sospetto. Le grandi raccolte di informazioni, invece, prescindono da ogni valutazione preventiva, riguardano tutti, trasformano tutti in sospetti. Si può contestare il contenuto di una intercettazione. E' più difficile liberarsi dal sospetto che può nascere dal nudo fatto d'aver telefonato dieci volte ad una persona. Queste nuove, gigantesche raccolte d'informazioni, inoltre, fanno crescere la vulnerabilità sociale. Basta conoscere il solo nome delle persone o delle istituzioni alle quali si è telefonato o inviato un messaggio di posta elettronica, pur senza registrare alcun contenuto delle comunicazioni, per ricostruire l'intera rete delle relazioni di una persona, i suoi spostamenti, l'intensità dei suoi contatti. Così non solo le possibilità investigative si allargano a dismisura, in modo non proporzionato alle finalità che si vogliono realizzare. Soprattutto si espone ciascuno di noi al rischio che i propri dati finiscano nelle mani di chi riesce ad entrare illecitamente in queste enormi e non sempre sicurissime banche dati e che informazioni delicate vengano messe in circolazione da dipendenti infedeli delle società che gestiscono le raccolte di informazioni. Questo vuol dire che esiste un rischio concreto che i dati finiscano nelle mani di terroristi o criminali. E' di poco tempo fa il furto delle informazioni di 52 milioni di clienti di Mastercard e il Senato degli Stati Uniti, consapevole di questi pericoli, ha appena approvato una proposta di legge che obbliga i gestori delle banche dati ad informare i loro clienti dei rischi di "furti d'identità". E' irresponsabile disinteressarsi di questi problemi. L'articolo 15 della Costituzione garantisce la libertà e la segretezza delle comunicazioni. Non è ammissibile, allora, che l'intera area della comunicazione elettronica venga lasciata vuota di garanzie costituzionali adeguate. Insieme alla riforma del vecchio mondo delle intercettazioni dev'essere affrontato il nuovo mondo delle grandi raccolte di informazioni personali per finalità investigative. A meno che non si voglia seguire l'esortazione, non si sa quanto ingenua o ironica, rivolta da un componente della Camera dei Lords al governo Blair perché favorisca "il ritorno alla corrispondenza epistolare, possibilmente manoscritta". Ma né chiudendo gli occhi, né prospettando impossibili fughe nel passato, troveremo la misura adeguata alla garanzia dei diritti nel tempo che viviamo. (Ndr: ripreso da La Repubblica dell'8 agosto 2005) |