A livello di attenzione mediatica, la categoria professionale degli infermieri sembra condividere la medesima sorte degli insegnanti: il più delle volte assurge agli onori della cronache per episodi negativi mentre i piccoli atti di eroismo eseguiti in “ecosistemi” davvero complessi restano perlopiù inosservati.
Alcuni esponenti di questa professione sanitaria si sono effettivamente macchiati di gravi responsabilità rendenosi protagonisti di condotte altamente negligenti, di gravi episodi di incuria, o maltrattamenti verso i pazienti. E (per fortuna, in rarissime circostanze) non sono mancati casi in cui taluni infermieri si sono eletti ad “angeli della morte” causando volontariamente il decesso di degenti incapaci di intendere e di volere.
Ma il mondo della sanità è – a livello globale – animato da milioni di operatori che svolgono silenziosamente e quotidianamente il proprio lavoro con impegno, dedizione e passione. In un contesto di continua criticità, è loro richiesta non solo una elevata competenza professionale ma anche una capacità di interazione e comprensione umana superiore alla media. Questo, talora, a fronte di turni massacranti cui è corrisposta una paga ridicola. Una professione ad elevato tasso di stress e con scarsi riconoscimenti: ciononostante, la maggioranza degli infermieri non solo non perde mai la bussola, ma va ben oltre i propri doveri. Per amore di una vocazione, per profondo rispetto del terzo in difficoltà.
Dagli Usa arriva, una volta tanto, una storia che ben rappresenta lo spirito di attaccamento e la devozione che un infermiere è solito denotare verso i principi e valori che ha deciso di sposare intraprendendo questa professione. Tra questi principi e valori, ci sono anche la difesa dei diritti di privacy dei “propri” pazienti contro indebite ingerenze da parte di terzi.
Il Washington Post del 2 settembre scorso ha esaustivamente raccontato la vicenda che ha visto, suo malgrado, coinvolta una capo infermiera dello Utah University Hospital. La riassumiamo in breve. L’articolo è corredato da un video proveniente dalla body camera montata sulla divisa di un agente che immortala l’accaduto sgombrando il campo da qualsiasi dubbio.
Tutto inizia il 26 luglio scorso con un pick-up guidato da un sospettato che non si ferma ad un controllo stradale per poi schiantarsi frontalmente con un camion. Il sospettato muore sul colpo, mentre l’autista dell’autocarro in fiamme viene ricoverato in coma al reparto ustionati dell’ospedale di Salt Lake City. Poco dopo, alcuni agenti di polizia si presentano nella struttura sanitaria per prelevare un campione di sangue dell’autista. La capo infermiera Alex Wubbels prende in carico la richiesta e, dubitando della legittimità della stessa, si confronta telefonicamente con un dirigente dell’ospedale per accertarsi se il protocollo consenta o meno il prelievo ematico coattivo in casi simili. La risposta è negativa, il prelievo è possibile solamente:
- in presenza di un mandato (di cui gli agenti non erano in possesso);
- oppure con il consenso del paziente (incapace di rilasciarlo perché in coma);
- oppure ancora nel caso in cui il paziente debba essere arrestato (ipotesi impossibile perché il ricoverato era semmai vittima di un reato).
La Wubbels espone con estrema pacatezza le ragioni del diniego e, per scrupolo, stampa e mostra agli agenti lo stralcio della procedura ospedaliera che elenca i (summenzionati) casi in cui la struttura può consentire prelievi coattivi sui pazienti per esigenze di giustizia. Davanti alle ulteriori pressioni psicologiche resiste con fermezza e professionalità: è ormai chiaro agli officer che Wubbels non consentirà che al “suo” paziente sia asportato un campione biologico in assenza di valido consenso o chiari presupposti di legittimità. A quel punto, l’agente incaricato di procedere al prelievo decide che ne ha abbastanza di cotanta ritrosia e procede all’arresto della capo infermiera per intralcio alle indagini, ammanettandola e conducendola di forza fuori dalla struttura. Il video mostra la drammaticità del momento e lo sgomento della professionista trattata repentinamente come un criminale solo per aver fatto il proprio dovere.
Venerdì scorso il procuratore distrettuale della contea di Salt Lake City ha annunciato l’apertura di una criminal investigation sul caso. Contemporaneamente sono giunte le scuse del Sindaco e del capo della polizia della capitale dello Utah. L’agente che si è reso colpevole del sopruso è stato sospeso dal servizio: nel corso delle indagini interne al corpo di polizia, ha dichiarato di essersi presentato all’ospedale in esecuzione di ordini superiori e che il prelievo era inteso nell’interesse del paziente. In tal senso, egli credeva di poter procedere sulla scorta di un consenso implicito dello stesso. Egli evidentemente non sapeva che nello Utah il consenso implicito al prelievo è invalido da oltre un decennio e che nel 2016 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che i prelievi di sangue finalizzati al controllo del tasso alcolemico sono possibili solo dietro valido mandato. Un’ignoranza grave che ha spinto il capo della polizia locale ad ordinare l’immediata revisione di manuali, procedure e formazione affinché, in materia, gli agenti abbiano la certezza assoluta sul da farsi e non vi sia margine per interpretazioni individuali ed estemporanee (se il mestiere di infermiere è difficile, non si può dimenticare quanto le forze dell’ordine, e specie gli agenti sul campo, siano chiamati ad operare in condizioni di stress elevatissimo e a prendere – spesso nell’arco di pochi secondi – decisioni cruciali che possono costare la vita a qualcuno e la carriera ad essi stessi).
La capo infermiera Wubbels si è dimostrata una serissima professionista e un “angelo della privacy” dei propri pazienti. Ora la sua storia di coraggio è sulle prime pagine dei quotidiani statunitensi; questo, suo malgrado e pur non avendo in alcun modo cercato di guadagnare visibilità dall’accaduto. E, quasi a simboleggiare quell’understatement che connota la vita professionale della maggioranza degli infermieri, ella ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di denunciare la polizia per l’abuso di potere subito; chiede soltanto un confronto aperto sul tema delle richieste autoritative affinché altri colleghi (o pazienti) non debbano trovarsi in situazioni altrettanto spiacevoli.
In Italia il prelievo coattivo di campioni biologici su persone in vita è disciplinato dall’art. 359-bis del Codice di Procedura Penale che prevede, in assenza di consenso dell’interessato, l’autorizzazione con ordinanza del GIP su richiesta del PM. Nei casi di urgenza (laddove attendere l’ordinanza del GIP significherebbe il rischio di compromettere la prova) il PM può autorizzare le operazioni con decreto motivato da sottoporre alla convalida del GIP entro le 48 ore successive al prelievo. Nell’ambito degli accertamenti urgenti per reati stradali, il decreto motivato può anche essere reso agli agenti (temporaneamente) per via orale dal PM purché ne sia dato tempestivo avviso al difensore dell’interessato (che potrà assistere alle operazioni di prelievo).