Poco più di un anno fa avevamo dato conto (leggi qui) dei risvolti giudiziari riguardanti una penosa vicenda che vedeva due genitori rivolgersi alle corti tedesche per poter accedere al profilo Facebook della figlia deceduta nel 2012 a soli 15 anni in seguito ad un apparente quanto incomprensibile gesto suicida (l’adolescente fu travolta da un convoglio sui binari della metropolitana).
La figlia aveva, un anno prima di morire, condiviso con la madre le proprie credenziali di accesso a Facebook. Passato lo sgomento iniziale, i genitori cercarono di loggarsi sul social network per indagare la vita digitale della figlia alla ricerca di qualche indizio utile a far luce su una morte inspiegabile ma si trovarono innanzi ad una sorta di pagina di commemorazione: le foto e i post che l’adolescente aveva reso pubblici erano ancora visibili, e a questi si aggiungevano i tributi lasciati dagli amici dopo la sua dipartita. Non erano più consultabili i contenuti privati, ossia quelli che più probabilmente avrebbero potuto rivelare tracce sul lato più intimo, emozionale e, quindi, vulnerabile della figlia. E magari qualche episodio di bullismo.
I genitori chiesero a Facebook di consentire loro pieno accesso al profilo, ma il colosso di Menlo Park oppose un diniego per tutelare la privacy e il diritto all’oblio della defunta. I genitori allora ricorsero in tribunale: il giudizio si chiuse favorevolmente nel 2015 con la Corte regionale di Berlino che sottolineava come i post di un profilo social debbano ritenersi esattamente come le lettere e i diari della figlia, che sono beni incontestabilmente ereditabili dai genitori.
Facebook però si oppose alla sentenza presso la Corte d’appello di Berlino che, al fine, ribaltava il giudizio di primo grado asserendo che – nel bilanciamento con le regole di diritto successorio – deve ritenersi prevalente la normativa sulla segretezza delle comunicazioni. Una disciplina che nel 2009 la corte costituzionale tedesca aveva esteso alle e-mail e che, in virtù di ciò, la corte d’appello aveva conseguentemente ritenuto applicabile alle chat via internet e quind’anche a quelle ospitate sulle piattaforme social.
Ed eccoci ai giorni nostri. La Corte Federale di Giustizia (BGH), rappresentante l’ultimo grado di giudizio, si è allineata – leggi qui su Detusche Welle – con l’intepretazione del giudice di primo grado riaffermando il diritto dei genitori ad accedere al profilo della figlia quale diritto successorio: i profili social del minore scomparso sono parte dell’eredità dei genitori che, dunque, possono averne accesso completo.
Una sentenza che farà discutere. Ovviamente, crea un precedente importante per Facebook e per gli altri social network che potebbero anche dover ripensare all’utilità delle opzioni riservate agli utenti che vogliano eleggere un tenutario in caso di morte (il cosidetto contatto erede che ognuno può eleggere dal propri profilo).
Ed è un tema che, volenti o nolenti, può riguardare tutte le famiglie a qualsiasi latitudine. Facebook, nelle sue mille funzionalità, è spesso utilizzato dagli utenti come strumento di ampia divulgazione della propria vita e dei propri sentimenti, ma talora è gestito alla stregua di un diario personale o di un mezzo di comunicazione privato. In tali casi, il social rappresenta posto dove gli adolescenti possono sviluppare la propria socialità in autonomia, senza controllo genitoriale, selezionando gli interlocutori e comunicando con gli amici sulla base di un’elevata aspettativa di riservatezza (come stessero interagendo via SMS o Whatsapp).
Ed allora la questione assume riflessi non solo giuridici, ma anche pedagogici. E’ più importante difendere la libertà di un figlio (garantendogli l’eterna inviolabilità del suo profilo e lasciandolo quindi esprimere senza condizionamenti) o render chiaro a tutti che i genitori potranno un giorno reimpossessarsi della sua vita digitale per aggrapparsi disperatamente a dolorosi flashback di un’esistenza svanita?
Nel 2016 era assurta agli onori della cronaca internazionale, la triste storia di un padre italiano che voleva accedere all’iPhone del figlio defunto per rivivere, tramite gli ultimi messaggi e le ultime immagini scattate, gli scampoli finali della sua vita. Anche in quel caso, il genitore dovette fronteggiare un diniego all’accesso per ragioni di privacy, per quanto diversamente motivate.
E’ evidente che la questione “testamento digitale” – che non possiamo qui ed ora affrontare – è ancora tutta da esplorare nei suoi meandri etici e giuridici, tanto più in riferimento ai minori iperconnessi. La tecnologia (tutta, non solo i social) va in fretta e chiede a grandi e piccini di trasferire online porzioni sempre più consistenti della propria vita.
Dobbiamo sbrigarci a metabolizzare il fatto che, quando non ci saremo più, ci sopravviveranno triliardi di informazioni che ci riguardano e che sarebbe il caso decidessimo in anticipo quale debba essere il loro destino. E’ una cosa che riguarda tutti e, per questo, sarebbe opportuno che tutti gli stakeholder (specie le istituzioni che ci rappresentano e i provider di servizi che detengono i nostri dati) elaborino strategie per:
- definire regole chiare e quanto più possibile condivise;
- conferire maggiore consapevolezza agli individui sulla necessità di manifestare le proprie volontà fin da giovani e senza attendere l’età in cui si incomincia a convivere il “pensiero della morte”;
- imporre “procedure testamentarie” semplici e univoche a livello globale.
Posta la complessità del quadro giuridico attuale ed accalarata l’umana ritrosia ad affontare il tema della morte in anticipo, c’è da considerare che la frammentarietà di una vita digitale che si articola in decine di account (pc, cellulare, email, servizi web, rapporti con PA o sanità, etc.) è tale da scoraggiare chiunque ad intentare oggi una definizione completa ed accurata della propria eredità digitale. Non a caso, negli USA sta nascendo il business degi esecutori testamentari digitali.
Sarebbe importante sviluppare una framework regolamentare che permetta ai singoli individui di decidere della propria digital afterlife in maniera autonoma, semplice e gratuita senza che si debba pagare un professionista per farlo. E, in tutto questo, sarebbe doveroso stabilire da quale età un minore (che dobbiamo supporre sempre più iperconnesso) potrà disporre per sé e, sotto questa soglia, cosa succede alla sua vita digitale in caso di prematura scomparsa.