Da qualche anno la “questione privacy” è oggetto di crescente attenzione pubblica. Diversamente da qualche anno addietro, oggi ciascuno di noi può avvertire la centralità dei dati personali nella propria vita e l’importanza che essi hanno per le business entity con cui entriamo quotidianamente in contatto.

Siamo diventati utenti di una società digitale che si sostanzia in una data economy, e ognuno di noi è ormai abituato a visualizzare informative, cookie banner e landing page che recitano frasi del tipo “ci teniamo alla tua privacy, per questo abbiamo rivisto le nostre policy”. Parallelamente i media – e, di conseguenza, i normali cittadini – riservano sempre maggiore attenzione alle notizie che riferiscono di gravi violazioni dei dati personali di una moltitudine di persone; tra colossali data breach, caterve di dati venduti o manipolati illecitamente, profilazioni occulte, e quant’altro, ognuno di noi ha in qualche modo preso consapevolezza che rilasciando continuamente dati personali a terze parti mettiamo a rischio le nostre informazioni personali, la nostra vita privata, e – in qualche misura – la nostra indipendenza di giudizio o libertà di scelta.

Ci consideriamo cittadini, ma per il mondo digitale con cui interagiamo – le OTT (Goolge, Facebook, Amanzon, etc.) e le altre svariate entità che raccolgono i nostri dati online – siamo soprattutto consumatori.

Da tempo, diversi studi dimostrano come i consumatori:

  • si dichiarino sempre più preoccupati per la sorte della propria privacy;
  • risultino, numeri alla mano, sempre più propensi a conferire i propri dati e ad acconsentire il monitoraggio e la profilazione dei propri data point. Tutto questo senza indagare che ne sarà di loro, pur di accedere un servizio o ottenere un vantaggio.

Nella maggioranza di noi alberga, dunque, un’intima contraddizione. Dentro di noi il bilanciamento degli interessi in gioco è tendenzialmente favorevole alla tutela della privacy quando il nostro vaglio è puramente teoretico, ma la medesima opera di balancing restituisce risultati di segno opposto quando elaboriamo un processo decisionale concreto. C’è una sorta di scollamento tra il ragionamento di principio e l’atto pratico. Tutto questo prende il nome di privacy paradox.

Una ricerca di PricewaterhouseCoopers eseguita nel 2017 riferiva che:

  • il 69% dei consumatori crede che i propri dati siano a rischio di attacco;
  • il 25% ritiene che le aziende non trattano con cura le informazioni personali;
  • il 10% sente di non avere un effettivo controllo sui propri dati;
  • l’85% non entrerebbe in contatto con una compagnia che non denota sicurezza.

Ciononostante, le persone non sembrano – nella quotidianità delle loro scelte – far conseguire comportamenti coerenti a cotanti convincimenti.

Eventi recenti – come, inter alia, il caso Cambridge Analytica o il fragoroso avvento del GDPR – avrebbero potuto suscitare nuovi dubbi nel pubblico, generare maggiore consapevolezza nel consumatore e, in altre parole, spostare in qualche modo i termini del paradosso. Ma pare non sia così: i consumatori continuano a dichiarare di volere maggiore privacy, ma essi stessi non fanno molto per proteggerla.

Uno studio pubblicato lo scorso febbraio dallo IBM’s Institute for Business Value (una sintesi qui su Axios) indica che:

  • l’81% dei consumatori si dice più preoccupato per la propria privacy rispetto a quanto lo fosse l’anno precedente;
  • il 75% sente che nel 2018 è diminuita la propria fiducia nella capacità delle aziende di trattare correttamente i loro dati;
  • l’89% delle compagnie dovrebbe esser più trasparente nelle proprie politiche di utilizzo dei dati personali.

Dal medesimo studio, tuttavia, emerge che:

  • solo il 45% è intervenuto per modificare i privacy settings (cookie, impostazioni di social e motori di ricerca, eccetera) eventualmente messi a loro disposizione;
  • il 16% ha interrotto i rapporti con compagnie colpevoli di utilizzo improprio dei dati;
  • il 71% dice che la privacy è sacrificabile a fronte dei benefici concessi dalla tencologia.

Sempre a fine febbraio 2019, un sondaggio di Axios-SurveyMonkey rivela che l’87% delle persone sostiene che, prima di aderire ad un servizio, è molto importante avere una piena comprensione della privacy policy della compagnia che lo propone. Tuttavia:

  • il 56% degli intervistati dichiara di accettare le privacy policy senza nemmeno leggerle;
  • la percentuale scende di soli 3 punti (53%) tra gli interpellati che avevano dichiarato come imprescindibile la previa comprensione dei termini del servizio e della privacy policy.

Alla luce degli ultimi studi e sondaggi, si può ben dire che il privacy paradox è ancora pienamente operativo nella mente del consumatore.