Il 15 settembre scorso Apple ha presentato in diretta streaming le nuove versioni di alcuni dei suoi prodotti di maggior successo: Apple Watch e iPad. Come molti esperti del settore avevano preconizzato, durante l’evento non c’è stato il lancio del nuovo iPhone 12 che dovrebbe essere presentato in ottobre.
Ciononostante, Apple ha approfittato di questo settembre di pubblicizzare ulteriormente il proprio telefono (e quindi la versione 11 attualmente in commercio), lanciando ai primi del mese un nuovo spot esclusivamente incentrato sulla privacy come valore fondamentale nella vita delle persone.
La sceneggiatura è iperbolica e divertente grazie ad una serie di comportamenti paradossali, quasi autolesionistici. Protagonisti della clip sono persone ordinarie che, in diversi contesti di normalità quotidiana, divulgano in presenza altrui informazioni strettamente personali, senza remore e in tutta serenità: c’è chi comunica ai passeggeri di un autobus di aver cercato online un buon divorzista, chi sussurra la propria “password per qualsiasi cosa” agli spettatori di un cinema, chi grida con un megafono i numeri della propria carta di credito e chi annuncia in un bar di aver comprato online “quattro test di gravidanza alle 9.16 del 15 marzo”.
Il titolo dello spot è “Over Sharing”, ossia eccesso di condivisione. Sul proprio canale YouTube – vedi qui il video – Apple accompagna la pubblicazione con la dicitura “Some things shouldn’t be shared. That’s why iPhone is designed to help give you control over your information and protect your privacy” (qui la versione in italiano uscita qualche giorno dopo, più breve e meno efficace).
Non è la prima volta che Apple insiste su questi aspetti. Nel recente passato la comunicazione della società californiana aveva già puntato sulla protezione dei dati come elemento cardine delle campagne del “melafonino”. Solo nel 2019, sono stati prodotti:
- un filmato che offre una carrellata di situazioni in cui persone qualunque cercano/esigono momenti di riservatezza (chiudendosi in una stanza, appartandosi in una casetta sull’albero, zittendosi all’arrivo di una cameriera, abbassando tapparelle, etc.). La breve trama si concludeva con la scritta “If privacy matters in your life, it should matter to the phone your life is on.”. Vedi qui lo spot in italiano;
- uno spot che parte con una ripresa soggettiva sul mezzobusto di un donna intenta a leggere una serie di messaggi in arrivo che suscitano in lei dapprima un crescente buon umore fino a procurarle un attacco di risate incontrollabili. Improvvisamente il campo si allarga e si scopre che la signora non è sola ma contornata da avventrici e addette di un negozio di pedicure che la osservano interdette, probabilmente interrogandosi sul motivo di tanta ilarità. Non lo sapranno mai, perché il telefono è della signora e solo lei è intitolata a leggere i messaggi. Sul finale una scritta in sovraimpressione chiarisce il portato metaforico della sceneggiatura: “iMessage encrypts your converations. Beacuse not everyone need to be in on the joke”. Vedi qui il video;
- una clip, questa volta connotata da un registro più serio e inquietante, in cui un drone si addentra nottetempo silenziosamente in una metropoli scrutando varie persone immerse in momenti di solitudine: alcune intente a lavorare fino a tardi, altre impegnate in esercizi fisici o a fare il bagno, oppure sedute sul divano di casa. Questi momenti di pace sono furtivamente invasi dallo sguardo a distanza di uno sconosciuto, in pratica un hacker volante. La voce fuoricampo asserisce: “In questo esatto momento ci sono più informazioni nel tuo telefono che in casa tua. Pensaci. Ci sono così tanti dettagli sulla tua vita, proprio nella tua tasca. Questo rende adesso la tua privacy più importante che mai. La tua posizione, i tuoi messaggi, la tua frequenza cardiaca dopo una corsa. Sono cose private, personali. Informazioni che appartengono a te. Semplicissimo.” Vedi qui il video.
Il claim di chiusura di tutte queste pubblicità – compresa quella lanciata pochi giorni orsono – è secco e punta a punta ad inculcare nell’immaginario collettivo che lo smatphone di Apple materializzi, quasi per antonomasia, il concetto di riservatezza e sicurezza delle informazioni personali: “Privacy. That’s iPhone.”
Si conferma così il trend evidenziatosi negli ultimi tempi: il colosso americano ha deciso di incentrare sulla data protection buona parte della propria comunicazione al pubblico. Come tutti i suoi competitor, l’iPhone si reclamizza anche tramite spot mirati ad evidenziare particolari features tecniche (design, sensori, funzionalità e prestazioni), ma diversamente dagli altri Apple sta organizzando campagne ad hoc per far emergere vieppiù la propria privacy-consciousness come elemento distintivo rispetto all’agguerrita concorrenza.
E’ evidente che Apple più di altri si può permettere investire denaro per trasmettere la propria etica anziché per illustrare in modo diretto le specifiche di un dispositivo. Grazie ad un’immagine sapientemente costruita nel tempo, il brand è divenuto iconico al punto che:
- i clienti sono quasi degli adepti in attesa messianica di nuove release (con tanto di affannosa ricerca di preziose anticipazioni), fideisticamente certi che ciascuna di esse alzerà l’asticella dello stato dell’arte nel mondo degli smartphone;
- la clientela potenziale e – tra presentazioni liturgiche dal palcoscenico di Apple Park e fiumane di post e recensioni di tecno-esperti – non ha bisogno di stimoli pubblicitari per essere ultra informato sulle ultime novità.
Per questo Apple si può “concedere il lusso” di investire in spot che per 30/60 secondi parlano di importanza della privacy nella vita delle persone, senza cenni diretti alle caratteristiche del device e talora senza che un iPhone venga inquadrato nello sviluppo della narrazione.
In questo senso vanno interpretate anche le più recenti mosse di Apple rispetto al CES di Las Vegas, il più importante evento mondiale sulla tecnologia per i consumatori:
- nell’edizione 2019 Apple – che come al solito non aveva presenziato alla kermesse perché qualsiasi lancio di prodotti della mela morsicata deve avvenire a Cupertino – si era fatta notare per un enorme cartellone pubblicitario provocatoriamente issato nei pressi del padiglione di Google in cui campeggiava la scritta “What happens on your iPhone, stays on your iPhone” (parafrasi del motto legato all’ospitante capitale del divertimento e della trasgressione: “Quel che succede a Las Vegas, rimane a Las Vegas”);
- nell’edizione 2020 si è rifatta viva dopo 28 anni di assenza in pratica limitandosi ad inviare il proprio Senior Director of Global Privacy, Jane Horvath, ad una tavola rotonda su tematiche di privacy con l’omologa di Facebook e una rappresentante della Federal Trade Commission.
Così facendo l’azienda californiana dà l’impressione di presentarsi quasi come un’autorità morale, talora sfiorando atteggiamenti che qualcuno ha giudicato al limite dello snob, dell’altezzoso. Ma evidentemente la compagine capitanata da Tim Cook ritiene che questa sia la strada corretta da percorrere e che non ci sia ragione per cambiare rotta.
D’altro canto, negli ultimi tempi tutto sembra andare per il verso giusto. Dal punto di vista meramente finanziario, Apple continua a prosperare in modo esponenziale: recentemente è divenuta la prima società statunitense quotata in borsa a raggiungere una capitalizzazione di mercato di oltre 2 trilioni di USD e a raddoppiare la valutazione negli ultimi due anni. La società ha anche goduto – e continua a beneficiare – di un ulteriore boost grazie alla pandemia di Covid-19 che ha costretto un’infinità persone di ogni latitudine ad operare in smart working o a studiare da casa: molte di queste si sono dovute dotare (o sono state dotate) di dispositivi adeguati al bisogno, la qual cosa si è tradotta per Apple – limitandoci ai dati del terzo trimestre – in utili record con quasi 60 miliardi USD di entrate e crescita a due cifre nelle vendite. Forte di questi numeri, l’azienda californiana può permettersi di continuare a proporre campagne pubblicitarie meno convenzionali (meno incentrate sul prodotto in sé) perseguendo ulteriormente la via di una comunicazione valoriale.
Non è una mera coincidenza il fatto che Apple abbia puntato fortemente su questo tipo communication strategy dopo il caso Facebook/Cambridge Analytica del 2018. Da quel momento, l’azienda ha spinto fortemente sulla questione del diritto alla privacy – per prima tra le big tech – anche come opinion leader comunicando (sia al pubblico che agli stakeholder istituzionali e non) il proprio convincimento che il complesso universo delle comunicazioni elettroniche necessiti urgentemente di una più efficace, omogenea e diffusa tutela dei diritti dell’utente digitale, specie in tema di protezione dei dati e dell’identità personale. Tra le altre, il CEO Tim Cook si era prodotto nella redazione di un articolo su TIME Magazine per perorare l’adozione negli USA di una regolamentazione comprensiva a tutela della privacy online degli utenti sulla scia del modello europeo incarnato dal GDPR. Cook concludeva in maniera incisiva il suo articolo facendo leva su un punto che molti giganti dell’economia digitale sembrano tutt’oggi non aver ancora colto a pieno: “La tecnologia ha il potenziale per continuare a cambiare in meglio il nostro mondo, ma non riuscirà mai a realizzarlo senza la piena fiducia delle persone che ne fanno uso”. E durante un intervento davanti alle istituzioni di Bruxelles aveva chiosato “We at Apple believe that privacy is a fundamental human right”.
A ben vedere, le strategie e i convincimenti di Apple erano chiari ben prima del polverone scatenato dal caso Facebook/Cambridge Analytica. Ad esempio, andando indietro di qualche anno, vale la pena ricordare come nel 2016 la lettera pubblica di Tim Cook con cui negava all’FBI accesso all’iPhone dell’autore della strage di San Bernardino sia valsa, in termini di impatto sul pubblico, quanto gli attuali spot pubblicitari incentrati sulla privacy: opporsi ad un ordine della giustizia per proteggere la segretezza della memoria del dispositivo di un omicida è un gesto forte (e, per molti, questionabile), ma ha dato la misura del commitment dell’azienda circa la riservatezza dei propri clienti.
Indubbiamente, Apple ha i suoi buoni motivi per presentarsi come apostolo della privacy rispetto ai principali concorrenti: ha capito prima di altri l’importanza della questione e ha profuso ingenti investimenti al fine di garantire la protezione dei dati di coloro possiedono un iPhone (oltre 1 miliardo di dispositivi attivi). Sono stati via via implementati upgrade innovativi in termini di sicurezza relativamente – ad esempio – all’autenticazione per l’accesso, alla crittografia delle informazioni, alla cancellazione della memoria da remoto in caso di furto/smarrimento, mentre il tracciamento degli utenti è minimizzato e le impostazioni privacy by default sono state nel tempo rafforzate. Non che la concorrenza ignori le tematiche di data security (ormai imprescindibili per un qualsiasi dispositivo smart), ma a parere di molti in Apple sembrano affrontarle prima e meglio. Non solo in modo più incisivo degli altri produttori di smartphone ma anche delle altre big tech (Facebook, Amazon, Google, etc.). Apple, diversamente dai giganti che guadagnano miliardi soprattutto sui dati degli utenti, vende principalmente costosi dispositivi hardware (cui lega opzionali servizi di intrattenimento multimediale, di cloud storage, di e-payment, etc.) caratterizzati da un sistema operativo proprietario e semi chiuso. Un business che, per forza di cose, parte da presupposti diversi: i clienti sono in primo luogo le persone, mentre – ad esempio – i customer di Google sono aziende che desiderano vendere beni/servizi a terzi. La priorità assoluta di Apple è che i device incontrino le aspettative degli individui; per questo, se i clienti chiedono maggiore tutela delle comunicazioni e dei dati online, Cupertino può sviluppare soluzioni privacy by design senza temere particolari ripercussioni dal punto di vista commerciale.
Il produttore californiano vuole proporre solo device che siano assemblati di privacy enhancing technologies e non manca di farlo sapere a tutti perché – cosa che, lo si ripete, altri non sembrano ancor messo bene a fuoco – se mettere la sicurezza delle informazioni al centro dello sviluppo tecnologico porta benefici immediati sulle vendite, oggi saper comunicare una forte etica di privacy porta un enorme ritorno di immagine e di engagement a favore del brand. Lo smartphone è divenuto l’estensione digitale della nostra persona, un incredibile concentrato di tecnologia che vive in simbiosi con chi lo possiede e che costituisce uno scrigno di informazioni privatissime e preziosissime. Va da sé, allora, che nella scelta di uno smartphone la fiducia nel produttore conta tantissimo.
Ciò detto, anche in rifermento al “melafonino” non sono mancate in passato le preoccupazioni di privacy. Ad esempio, ci sono stati problemi in rifermento a:
- possibili vulnerabilità del sistema di riconoscimento facciale;
- una minor tutela degli utenti cinesi rispetto alla possibile ingerenza governativa nei dati in cloud;
- un bug che permetteva l’ascolto occulto via FaceTime prima che l’utente rispondesse alla chiamata;
- una funzionalità che consentiva agli sviluppatori dell’azienda di ascoltare alcune (lo 0,2%) delle registrazioni effettuate da Siri per migliorare il software dell’assistente vocale, senza che gli utenti coinvolti ne fossero in alcun modo al corrente.
Nella presentazione del 15 settembre scorso, pur tacendo sul nuovo iPhone, sono state rese informazioni sulle funzionalità del prossimo aggiornamento del sistema operativo iOS 14 che è disponibile da oggi per tutti gli iPhone (a partire dal iPhone 6) e iPad. Anche qui Apple introduce ulteriori miglioramenti a protezione dei dati personali tra cui spiccano:
- un nuovo pannello denominato “Resoconto sulla privacy” finalizzato a fornire un quadro veloce di come i siti visitati tramite il browser Safari traccino l’utente;
- un nuova configurazione dell’App Store che renderà informazioni utili a capire in che modo un’app gestisce la privacy prima ancora di scaricarla;
- la possibilità di acconsentire una localizzazione “approssimativa”, utile laddove non si voglia negare ad un app una qualche forma di individuazione geografica (ad esempio per avere notizie o meteo) senza dover tuttavia rivelare la posizione precisa del dispositivo;
- un indicatore che apparirà nella parte superiore dello schermo per avvisare l’utente se un app stia accedendo in background al microfono o alla fotocamera del telefono. A questo si aggiunge la possibilità di verificare nel Centro di Controllo quali app vi hanno recentemente avuto accesso. Una soluzione importante perché in passato fu contestato ad Apple il fatto che molte app di terza parte accedevano ad alcuni sensori dell’iPhone prescindendo dalle autorizzazioni dell’utente e senza che questi se ne potesse accorgere.
Anche alla luce di queste nuove funzionalità sistemiche che restituiscono all’utente maggiore controllo e consapevolezza riguardo le proprie tracce elettroniche, Apple ritiene di poter continuare a proporsi agli utilizzatori di smartphone nella veste di miglior data protector possibile.
Certo… Al giorno d’oggi – con i cyber-pericoli che corrono e con le migliaia di tecno-smanettoni pronti a scovare falle in ogni dispositivo – ci vuole una buona dose di coraggio per ergersi pubblicamente a paladini della privacy senza macchia e senza paura. Solo il tempo, che tuttavia nell’era digitale scorre molto rapidamente, ci potrà dire se la strategia studiata a Cupertino si rivelerà una scommessa vincente o un azzardo mal considerato ad altissimo rischio reputazionale.
Nel frattempo, pur consci che gli afflati etici di Apple sono comunque esclusivamente mirati ad un continuo incremento degli utili, non può che salutarsi positivamente l’avvento di una comunicazione pubblicitaria che divulga l’importanza dell’autodeterminazione informazionale nell’era digitale.
Gli spot di iPhone, poiché ben fatti, sono sempre considerati catchy e in questo caso rendono con efficacia il peso specifico di un valore che tutti in qualche modo conoscono ma che ai più risulta, all’atto pratico, sfuggente nei suoi esatti contorni e nel portato quotidiano. Le immagini di persone ordinarie alle prese con questioni che hanno riflessi di data protection aiutano a concretizzare il concetto di privacy, vuoi trasmettendo ai più giovani (e non solo) il messaggio che non tutto deve esser sempre condiviso sui social, vuoi riaffermando il concetto di segretezza delle comunicazioni elettroniche (anche rispetto alla sorveglianza governativa), vuoi chiarendo che possiamo scegliere di vivere una piena esistenza digitale senza per questo dover cedere per forza parte di sé stessi finendo nei meccanismi di micro-targeting di colossi commerciali o fazioni politiche che intendono manipolare massivamente le scelte di consumo o convincimenti di ciascuno.
Ben venga, dunque, uno spot pubblicitario se contribuisce ad aumentare la consapevolezza di una vastissima platea. Perché la privacy non è solo una voce del menu Impostazioni, ma è un diritto indefettibile della persona.