dott. Marco Massimini – Amministratore Unico e Project Manager di Privacy.it

Pubblicato in data 20-01-2021

Nuovi studi suggeriscono che i parametri fisiologici rilevati da smartwatch e altri wearable device possono svolgere un ruolo prezioso nell’individuazione anticipata dell’infezione da coronavirus.

L’ingente quanto dispendiosa opera di contrasto alla diffusione del Covid-19 è caratterizzata da una serie di sfide al limite del possibile. Come in quasi tutte le pandemie di matrice infettiva, c’è un problema che più di tutti complica maledettamente le cose penalizzando l’efficacia delle principali strategie di contenimento: c’è un momento in cui le persone sono contagiate e contagiose senza nemmeno saperlo. In altre parole, manca l’informazione tempestiva che il virus è entrato nel nostro corpo.

Nelle malattie infettive, la diagnosi precoce è fondamentale per poterne mitigare la diffusione ricorrendo all’autoisolamento e a trattamenti anticipati. Per converso, in assenza di un esame diagnostico è impossibile riconoscere la presenza del virus prima dell’eventuale insorgenza di sintomi. Ma per vastità di scala e tempistiche di rilevazione, non c’è sorveglianza sanitaria che possa reggere il ritmo con cui si propaga una malattia altamente infettiva come questo coronavirus. Non è possibile eseguire test continuativi sulla masse (perché dispendiosi in termini di tempo, denaro e competenze professionali), e ad ogni buon conto, la diagnostica più sensibile attualmente impiegata richiede – per essere davvero attendibile – che la raccolta del campione di sangue o mucose sia effettuata diversi giorni dopo l’esposizione al virus. Tutto questo congiura acciocché tra di noi si aggiri costantemente un moltitudine di inconsapevoli asintomatici: molti non scopriranno mai di aver contratto il Covid (o lo scopriranno solo tra mesi grazie ad un’indagine sierologica), altri svilupperanno sintomi più o meno gravi tra qualche giorno. Diversi tra loro, comunque, sono o diventeranno a breve contagiosi e potranno infettare altre persone.

Quale sia la percentuale di asintomatici a livello globale è oggetto di dibattito nella comunità scientifica. C’è chi arriva a stimare siano il 95% della popolazione che si è infettata, ma i soli dati affidabili a disposizione riguardano soggetti che abbiano effettuato un esame diagnostico risultando positivi. Secondo il più importante organismo sanitario USA, il Center for Disease Control and Prevention (CDC), ammontano al 40-45% del totale le persone a cui è stato diagnosticato il Covid-19 in assenza di sintomi e il 24% di loro ha contagiato altre persone senza mai sviluppare alcuna sintomatologia, mentre il 35% ha trasmesso il virus prima della comparsa dei sintomi. In Italia, stando all’ultimo bollettino, i dati ufficiali del ISS rivelano che sono privi di sintomi il 58,5% dei testati, mentre il 13,1% è paucisintomatico, il 24,1% presenta sintomi lievi e, ancora, il 3,7% sintomi severi e lo 0,5% con un quadro clinico critico.

Si ritiene che gli asintomatici siano meno contagiosi; anche qui non vi sono ancora dati certi e comunque potrebbero ampiamente fluttuare in ragione delle nuove e più aggressive varianti virali. Uno studio pubblicato su Nature sostiene che gli asintomatici abbiano il 42% in meno di possibilità di infettare rispetto ai sintomatici. A controbilanciare la minor capacità di trasmissione c’è però il fatto che le persone asintomatiche e presintomatiche – nonché i paucisintomatici meno scrupolosi – restano in circolazione e a contatto con il resto della comunità per l’intera durata della loro infezione.

Comunque si vogliano leggere questi ed altri numeri sul tema, è pacifico che anche il più efficiente sistema basato sulle famose 3T (Tracing – Testing – Treating) può intercettare solo una quota marginale degli asintomatici o dei presintomatici; questo, per il semplice motivo che, al netto degli screening periodici effettuati in determinati contesti professionali o assistenziali, ai test si sottopone perlopiù chi denota possibili segnali di insorgenza della malattia o chi è consapevole di aver avuto contatti con soggetti infetti. Questo scenario – purtroppo lo si è visto – rende altamente difficile contenere l’infezione ricorrendo ad una strategia imperniata sull’identificazione dei contagiati tramite esami diagnostici, il tracciamento dei contatti (già ostico partendo dai casi conclamati) e la messa in quarantena; la cruda verità è che la grande maggioranza dei positivi è asintomatica, non è testata, sfugge al tracciamento e non viene isolata. C’è una moltitudine inconsapevole di essere ammorbata e potenzialmente contagiosa. Costoro rappresentano un rischio per sé (perché potrebbero sviluppare sintomi anche gravi a stretto giro) e per gli altri.

In questo scenario ad alta complessità, un prezioso aiuto potrebbe venire dai dati personali rilevati da un dispositivo elettronico personale. Questa volta non si tratta del cellulare e delle relative utility anti-Covid sviluppate come strumento di contact tracing (tralasciamo qui considerazioni sul misero contributo reso dalla nostra app Immuni) o come diario per l’auto-annotazione dei sintomi e del loro decorso. Il contributo potrebbe, invece, arrivare dai così detti dispositivi smart indossabili. I wearable device comunemente in commercio eseguono rilevazioni precluse ai sensori degli smartphone: a seconda dei modelli, monitorano e quantificano parametri fisiologici come la frequenza cardiaca, il sonno, l’attività e le misure della funzione del sistema nervoso autonomo.

I ricercatori del Mount Sinai, il più vecchio e prestigioso ospedale universitario di New York, hanno scoperto che l’Apple Watch è in grado di rilevare piccoli cambiamenti nel battito cardiaco che possono indicare  la presenza di un’infezione da coronavirus in chi lo indossa. Tutto questo, una settimana prima che la sintomatologia si manifesti. In uno studio intitolato “Warrior Watch”, i ricercatori del Mount Sinai hanno seguito un gruppo di 297 operatori sanitari – ossia un cluster particolarmente esposto al virus – tra il 29 aprile e il 29 settembre 2020. I partecipanti indossavano smartwatch di Apple dotati di un app appositamente sviluppata – la Warrior Watch Study App – in grado di misurare le variazioni della frequenza cardiaca (Heart Rate Variability – HRV). “L’orologio ha mostrato cambiamenti significativi nelle metriche HRV fino a sette giorni prima che gli individui avessero un tampone nasale positivo che confermava l’infezione Covid-19“, ha detto l’autore dello studio Robert P. Hirten (qui la pubblicazione integrale della ricerca). “Sapevamo già che i marcatori della variabilità della frequenza cardiaca cambiano con lo sviluppo dell’infiammazione nel corpo, e Covid è un evento incredibilmente infiammatorio“, ha affermato Hirten, “Ci permette di prevedere che le persone sono infette prima che se ne accorganoQuesta tecnologia ci permette non solo di tracciare e prevedere gli esiti della salute, ma anche di intervenire in modo tempestivo e remoto, il che è essenziale durante una pandemia che richiede che le persone rimangano separate“.

Uno studio simile condotto dall’Università di Stanford che ha coinvolto oltre 5.000 partecipanti dotati di una varietà di tracker di Garmin, Fitbit, Apple, e altri ancora, ha denotato che l’81% dei soggetti risultati positivi ad un esame diagnostico presentavano variazioni dell’HRV fino a nove giorni e mezzo prima dell’insorgenza dei sintomi (qui la pubblicazione integrale della ricerca). L’applicazione è alimentata da un algoritmo che rileva i cambiamenti nella frequenza cardiaca a riposo e nel conteggio dei passi. L’analisi dei dati retrospettivi ha rilevato che l’app è stata in grado di segnalare correttamente nel 63% dei casi i segni del Covid-19 prima che i sintomi si manifestassero. I ricercatori hanno anche osservato che gli individui infetti camminavano in media 1.440 passi al giorno in meno e dormivano 30 minuti in più rispetto a quelli sani. Incrociando questi dati con quelli di altri studi sulle capacità di desease detection dei dispositivi indossabili, il team ha addestrato un algoritmo che, tramite sistema di notifica via app, allerti gli utenti sul sospetto diagnostico di un’infezione. I falsi allarmi ovviamente non mancano e potrebbero essere dovuti ad determinati fattori: alcuni farmaci possono causare variabilità nelle frequenze cardiache rendendo difficile per l’algoritmo inquadrare correttamente quale sia il ritmo stabile a riposo. Altri fattori, come i viaggi aerei prolungati, i cicli mestruali o il tempo trascorso ad alta quota, possono far scattare l’allerta. Ma il contributo in termini di diagnostica precoce resta potenzialmente sostanzioso: “Rilevare i segni di infezione prima che i sintomi si manifestino sarebbe un enorme vantaggio per la salute pubblica, dato che un certo numero di trasmissioni Covid-19 sono sospettate di provenire da individui asintomatici o con una lieve infezione“, ha detto il ricercatore Tejaswini Mishra. “Gli individui la cui frequenza cardiaca indica un’infezione – COVID-19 o meno – possono essere avvertiti di mettersi auto-isolamento“.

Gli studi dei ricercatori Mount Sinai e di Stanford ora proseguono nelle fasi successive delle rispettive indagini scientifiche auspicando di trovare conferme e nuove correlazioni. Ma questi team non sono gli unici al lavoro sul tema.

All’inizio della pandemia, la NeuTigers, società nata dalla ricerca del Department of Electrical Engineering dell’Università di Princeton, ha realizzato che la sua piattaforma StarDeep Smart Healthcare Platform – che fornisce soluzioni basate sull’intelligenza artificiale per aumentare la produttività degli operatori sanitari – poteva essere utilizzata nella lotta contro Covid-19. NeuTigers ha quindi sviluppato un programma AI chiamato CovidDeep che può aiutare a identificare le persone affette dal virus, in primis, nelle strutture cliniche o nelle case di cura. L’azienda ha preso a monitorare i pazienti con un braccialetto smart, l’Empatica E4, per effettuare una serie di letture riferite all’epidermide (risposta galvanica e temperatura), la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Inserendo queste informazioni in CovidDeep, hanno scoperto di poter rilevare il virus ad un tasso del 90%, più accurato rispetto alla semplice rilevazione della temperatura e all’osservazione de visu del paziente. Alla fine hanno pianificato di produrre una propria app che potrebbe funzionare con Fitbit, Withings, Apple, Samsung e altri smart weareble. CovidDeep è stata sviluppata attraverso ricerche cliniche e prove di convalida che hanno da principio coinvolto l’Ospedale San Matteo di Pavia – durante la fase acuta della pandemia nell’aprile 2020 – e che, per confermare la robustezza delle evidenze, si dispiegano in ulteriori studi prospettici sul campo in alcuni ospedali di Francia e Stati Uniti  (per saperne di più, qui lo studio di cui è firmatario anche l’ex sindaco di Roma Prof. Ignazio Marino). In modo non dissimile da quanto arguito da Mount Sinai e da Stanford, la soluzione consentirebbe il rilevamento precoce del coronavirus negli asintomatici e presintomatici utilizzando una combinazione di sensori in wearable già utilizzati da milioni di persone e comunque ampiamente disponibili sul mercato, senza la raccolta invasiva di campioni biologici. Il vantaggio dal punto di vista della protezione dati è che i dati identificativi restano nel dispositivo utente sicché, a detta di NeuTigers “i dati personali rimangono privati, sicuri e conformi alle norme HIPAA/GDPR”.  L’App è già disponibile dal 12 gennaio scorso per dispositivi Android (la versione iOS è in arrivo) comprensiva di un periodo di free trial di 7 giorni. Nel corso dell’anno la società americana intende conquistare un pubblico più vasto puntando sia a coloro che abbiano esigenza di  rilevamenti cospicui (aziende o eventi pubblici/privati), sia ai singoli consumer che desiderino dotarsi un supporto diagnostico ad uso meramente personale.

I wearable device potrebbero esser d’aiuto anche senza che siano sviluppati studi o algoritmi specificamente mirati ad intercettare le alterazioni provocate dal Covid-19. Questo come sembra confermato anche da una recente notizia dal mondo del golf professionistico. Nel circuito PGA sono diversi i top player che utilizzano i fintess tracker d’alta gamma di Whoop, ossia bande smart da polso o bicipite che controllano la frequenza cardiaca, lo sforzo, il sonno e i modelli di recupero di chi lo indossa. Il giocatore Nick Watney era risultato negativo ad un test molecolare svolto in vista di un torneo, ma dopo poco l’app di Whoop che interagisce con il suo braccialetto ha segnalato un aumento della frequenza respiratoria durante il sonno. Watney, avendo contezza che tale alterazione potrebbe essere spia di infezione da coronavirus, ha deciso di sottoporsi a nuovo test che, questa volta, ha restituito esito positivo e lo ha indotto alla quarantena. Come immediata conseguenza, il PGA Tour da inizio gennaio 2021 ha stretto una partnership con Whoop e fornirà gratuitamente mille strap intelligenti – e relativa app-membership da 30 dollari al mese –  a giocatori, caddies, e lavoratori essenziali dei tornei. Il tutto nello sforzo di tenere il coronavirus quanto più possibile lontano dal circuito.

In attesa che i vaccini chiudano auspicabilmente la tragica partita con il Covid-19, siamo ancora alla disperata ricerca di un game changer che possa contenerne i devastanti effetti sul piano sanitario, sociale ed economico. La ricerca scientifica e tecnologica sta accelerando bruscamente verso l’impiego dei dispositivi indossabili intelligenti come strumento di riconoscimento precoce dell’impronta del Covid-19. Questi strumenti, dialogando con nuovi modelli AI machine learning, come le reti neurali profonde, si propongono di dare una mano al contrasto della pandemia. L’emergenza spinge i nostri AppleWatch, Fitbit e simili a trasformarsi da “semplici” wearable device a veri e propri wearable medical sensor che – a differenza di altri strumenti di telemedicina o di autodiagnostica – sono integrati in un oggetto di uso “quotidiano” che chiede solo di essere indossato in modo prolungato per consentire un efficiente monitoraggio dei nostri parametri corporei in chiave anti-Covid. Forse non faranno a tempo a giocare un ruolo decisivo contro il Covid-19, ma potrebbero già dare un contributo utile in specifici contesti operativi e ai singoli individui che già possiedono tali dispositivi. E comunque sia, non sfugge che, anche grazie ai progressi che abbiamo qui descritto, le tecnologie indossabili di uso comune sono con tutta probabilità destinate a diventare degli strumenti di diagnostica precoce non solo per future epidemie ma anche in relazione qualsiasi malanno provochi alterazioni rilevabili da sensori che si faranno sempre più sofisticati.

Inutile dire che in questo scenario nessuno si potrà permettere di sottovalutare i profili di privacy di ogni singola soluzione. Negli ultimi anni si è assistito ad un’invasione di wearable tecnology caratterizzata da:

  • un proliferare di prodotti minori (la cui trasparenza e accountability in termini di data protection si è spesso mostrata approssimativa);
  • e pochi prodotti di alta fascia intenti ad occupare gran parte del mercato, prodotti che il più delle volte fanno capo alle soliti colossi della data economy (e qui c’è il problema dell’eccesso di concentrazione delle informazioni personali che diamo alla stessa holding tramite strumenti/servizi eterogenei cui non possiamo/sappiamo rinunciare).

Spesso l’utente non è consapevole di cosa succede ad informazioni che sono altamente personali (spostamenti, orari, bioritmi, interazioni sociali, etc.) e che, come visto, possono monitorare lo stato di salute e finanche rilevare l’insorgenza di possibili patologie anche gravi prim’ancora che l’utente/consumatore se ne accorga. Quante volte lo user realizza in ritardo che i dati sono condivisi dal produttore con una serie di provider di servizi e di partner commerciali che magari risiedono a latitudini dove i diritti alla privacy e alla sicurezza dei dati sono a malapena declinati. Non c’è solo un tema di trasparenza e consapevolezza, ma sussiste anche un tema di debolezza dell’individuo in determinati contesti o davanti a determinate offerte. Un paio di esempi reali possono rendere l’idea. Cosa fare se l’università cui desideri iscriverti ti ammette solo se indossi il Fitbit e condividi con lei i dati delle tue performance fisiche? E se la tua assicurazione ti propone un Fitbit in regalo e un forte sconto sulla polizza vita se la fai accedere ai dati rilevati costantemente dal tracker?

Molte big tech negli ultimi anni stanno sviluppando tecnologie e servizi per l’innovazione del comparto sanitario: digitalizzazione della documentazione, interconnessione di database, algoritmi di diagnostica precoce, screening di massa, telemedicina ed altro ancora… un business da miliardi di dollari con trame intessute principalmente su cloud e intelligenza artificiale. Ma gli investimenti puntano ai personal device che monitorano la salute dei consumatori, così da attivare un’ulteriore sorgente di dati personali da incrociare con l’enorme mole già in loro possesso ad ulteriore incremento della propria capacità di profilazione. Nel 2019 la holding Alphabet di Google ha acquisito al prezzo di 2,1 miliardi di Fitbit. Una mossa che molti hanno percepito come inquietante. Nel giorno stesso dell’annuncio, il senatore della Virgina Mark Warner si era detto gravemente preoccupato, chiedendo che “si obblighino le grandi aziende tecnologiche a spiegare come utilizzano i dati che ottengono tramite prodotti e dispositivi sanitari”. Contestualmente, il Presidente del Garante Privacy esponeva i suoi timori affermando che “L’acquisizione di Fitbit da parte di Google contribuirà alla concentrazione di informazioni personali degli utenti nelle mani di pochi colossi del web, con conseguenze negative anche per le istituzioni democratiche”.

Le tematiche di privacy – comprese quelle riconnesse alla cybersecurity di queste soluzioni – sono molteplici e non possono esser qui elencate e tanto meno analizzate. Ciò che importa sottolineare è che se qualcuno desidera acquistare adesso una wearable tecnology perché informato degli ultimi studi che ne lodano le potenzialità come strumento individuale di diagnosi precoce del Covid-19, costui deve scegliere accuratamente il dispositivo e l’eventuale app, studiare attentamente le politiche di protezione e sicurezza dati, e settare le impostazioni in modo da non condividere con produttore e/o terze parti alcunché se non i dati indispensabili. E’ indubitabile che da un uso intelligente di questi strumenti possiamo trarre immani benefici. Ma ricordiamoci che certe informazioni sono di competenza solo nostra o, al limite, dei professionisti della salute che ci assistono.

Non è impensabile che in un futuro più vicino di quanto crediamo i wearable nella loro accezione attuale sembreranno un lontano ricordo perché ci faremo infilare dei microchip sottopelle collegati con qualche e-health provider che provvederà al monitoraggio generale e continuo dei nostri parametri biologici. In quel momento si presenteranno altre problematiche di privacy a fronte di nuovi, innegabili vantaggi per la qualità e durata della nostra vita. Per adesso, accontentiamoci di vedere se – in un contesto emergenziale – possiamo fruire dei dispositivi indossabili in modo più intelligente e utile di quanto fatto finora, senza per questo dover cedere parte di noi stessi ad entità che nulla hanno a che spartire con la nostra salute.