In un accordo raggiunto con 40 Stati americani reso noto questa settimana, Google ha accettato di pagare 392 milioni di dollari per porre fine alle accuse di aver tracciato la posizione geografica degli utenti che avevano disattivato la funzione di geolocalizzazione sui propri dispositivi. Trattasi del più oneroso multistate privacy settlement mai sottoscritto negli Stati Uniti.
Nel 2018, un reportage dell’Associated Press svelò come molti servizi di Google su dispositivi Android e iPhone continuassero a salvare i dati sulla posizione degli utenti anche dopo che questi avevano disattivata la funzione di rilevamento nel pannello delle impostazioni sulla privacy. I procuratori statali avviarono collegialmente un indagine giungendo alla conclusone che Google ha – almeno dal 2014 – violato le norme USA a protezione dei consumatori: gli ha ingannati registrandone movimenti a loro insaputa per poi offrire i dati raccolti in modo surrettizio agli operatori di marketing digitale per vendere pubblicità. Pubblicità che è fonte di quasi tutte le ingenti entrate di Google e che grazie alle preziose rilevazioni sul posizionamento individuale consente agli advertiser di indirizzare le scelte delle persone con annunci basati, oltre che sulla profilazione di propensioni e abitudini di spesa, su un criterio di prossimità geografica.
“Per anni Google ha privilegiato il profitto rispetto alla privacy dei suoi utenti“, ha dichiarato il procuratore generale dell’Oregon Ellen Rosenblum, che ha condotto l’indagine insieme al Nebraska, chiosando: “Sono stati astuti e ingannevoli“. “Quando i consumatori decidono di non condividere i dati di localizzazione sui loro dispositivi, dovrebbero poter confidare nel fatto che un’azienda non traccerà più ogni loro spostamento“, ha dichiarato in un comunicato il procuratore generale dell’Iowa Tom Miller. “Questo accordo chiarisce che le aziende devono essere trasparenti nel tracciare i clienti e rispettare le leggi statali e federali sulla privacy“.
Nell’ambito dell’accordo, Google si è impegnata ad apportare una serie di modifiche che renderanno più trasparenti le pratiche di tracciamento della posizione. In particolare, dovrà:
- mostrare agli utenti informazioni aggiuntive ogni volta che attivano o disattivano un’impostazione dell’account relativa alla posizione;
- rendere non eludibili per gli utenti le informazioni chiave sul tracciamento;
- fornire agli utenti informazioni dettagliate sui tipi di dati di localizzazione raccolti da Google e su come vengono utilizzati nell’apposita e migliorata pagina web “Tecnologie di localizzazione”.
Big G ha comunque tenuto a precisare che certe condotte erano già state modificate. Jose Castaneda, portavoce di Google, ha dichiarato: “Coerentemente con i miglioramenti che abbiamo apportato negli ultimi anni, abbiamo risolto questa indagine, che si basava su politiche di prodotto obsolete che abbiamo cambiato anni fa“.
Lunedi scorso, in un blog-post seguente l’accordo, Google ha reso inoltre noto che “nei prossimi mesi effettuerà degli aggiornamenti per fornire un controllo e una trasparenza ancora maggiori sui dati di localizzazione“. Tali modifiche includono la possibilità di eliminare più facilmente i dati sulla posizione. I nuovi utenti disporranno di controlli per la cancellazione automatica che consentiranno loro di ordinare a Google di eliminare determinate informazioni dopo un tot di tempo. Queste novità andranno a beneficio di tutti gli utenti, così anche noi europei godremo di un privacy boost per effetto dell’iniziativa di 40 stati americani.
Il settlement è giunto in un momento in cui i legislatori di Washington ancora esitano ad approvare una legislazione federale sulla privacy. Nonostante l’orientamento favorevole di entrambi i partiti all’approvazione di una normativa nazionale a protezione dei dati personali, il Congresso non è ancora riuscito ad agire; questo, non solo a causa di alcune divergenze di impostazione ma anche complice l’esercito di lobbisti schierato dalle Big Tech per annacquare o abortire il progetto di riforma. Così, la democrazia con la prima Costituzione al mondo rimane indietro su un diritto fondamentale rispetto ad una UE che, forte del suo GDPR, continua a ritenere gli USA un territorio inadeguato quanto a tutele di privacy (al punto che i data transfer transoceanici sono, nei postumi della sentenza Schrems II e nelle more di un Trans-Atlantic Data Privacy Framework, ancora a rischio di censure di legittimità da parte delle autorità del Vecchio Continente).
“Finché non avremo norme organiche sulla privacy, le aziende continueranno a raccogliere grandi quantità di dati personali per scopi di marketing con pochi controlli“, ha dichiarato l’Attorney General dell’Oregon Rosenblum. In questo “vuoto” legislativo federale, gli Stati stanno assumendo un ruolo sempre più centrale nel limitare il potere e i modelli di business delle aziende della Silicon Valley.
Il mese scorso, Google ha patteggiato con le autorità dell’Arizona un pagamento da 85 milioni di dollari a seguito di accuse simili secondo le quali il gigante tecnologico avrebbe utilizzato in modo ingannevole la localizzazione sui telefoni per fornire agli inserzionisti dati sui consumatori. Medesime accuse erano state formulate a gennaio da Texas, Indiana, Washington e il Distretto di Columbia – anch’essi non partecipanti all’azione legale degli altri 40 stati – che hanno intentato cause individuali, non ancora definite, contro Google per le presunte violazioni di privacy. Tirando le somme, per la sola questione della geolocalizzazione surrettizia il colosso di Mountain View si è trovata contro 43 stati (su 50), oltre il D.C., e quest’anno si è già dovuto impegnare a sborsare quasi mezzo miliardo di USD.